Il 16 dicembre scorso è entrata in vigore la Legge n. 172/20231 che vieta la produzione e l’immissione sul mercato di alimenti prodotti a partire da colture cellulari.
Come spiegato in conferenza stampa dal proponente Ministro dell’Agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste, la normativa intende vietare in Italia la carne coltivata, al fine di tutelare non solo la salute umana ma anche il patrimonio agroalimentare nazionale.
L’intervento normativo ha provocato un vivace dibattito in Italia ed anche oltre confine.
Prima di entrare nel vivo della discussione, tuttavia, sarà necessario chiarire di cosa stiamo parlando quando ci riferiamo alla carne coltivata, e comprendere le ragioni per le quali la produzione tecnologica di alimenti proteici costituisce oggi un tema di cruciale importanza dal punto di vista sociale, economico, ambientale e, per gli operatori del diritto, anche giuridico.
Cos’è la carne coltivata
La carne coltivata si ottiene a partire da cellule animali, che vengono prelevate e fatte proliferare all’interno di bioreattori. Al prodotto, che si presenta inizialmente come una sostanza commestibile ma priva di forma e colore definiti, viene successivamente conferito un aspetto simile alla carne che conosciamo.
Per analogia al processo agricolo con cui si prende il germoglio di una pianta e lo si fa crescere in una serra, il procedimento di coltura cellulare finalizzato alla produzione di un prodotto alimentare commestibile viene spesso definito “agricoltura cellulare”.
Il mercato della carne coltivata
I costi di produzione sono alti, ma tendono velocemente a diventare competitivi. Il primo hamburger coltivato al mondo è stato realizzato nel 2013 con un investimento di 325.000 dollari. Meno di tre anni dopo, la startup americana Memphis Meats è riuscita a produrre la prima polpetta coltivata in laboratorio a un costo di circa 1.200 dollari. A fine 2018, un laboratorio israeliano ha annunciato di aver prodotto una piccola bistecca a un costo per unità di 50 dollari2.
Le startup presenti nel settore della carne coltivata sono circa 150 nel mondo e si occupano della produzione di pollo, manzo, maiale e frutti di mare, e anche di materie prime e attrezzature necessarie lungo la catena di produzione.
Perché dovremmo ricercare alimenti proteici alternativi?
I motivi della forte espansione del settore della carne coltivata sono molti.
Anzitutto, si stima che la capacità di produzione di carne “convenzionale” ben presto non potrà più far fronte alla crescente richiesta legata all’aumento della popolazione mondiale e all’accesso alla carne delle economie in via di sviluppo.
Inoltre, rispetto alla produzione convenzionale di carne bovina, suina, ovina e avicola, la carne coltivata potrebbe ridurre fino al 99% l’uso del suolo, fino al 96% l’uso di acqua e fino al 96% le emissioni di gas serra derivanti dalla produzione di carne.
Un altro motivo è il calo del consumo di carne tra la popolazione non vegetariana, legato alla crescente attenzione al benessere degli animali, che sta portando i produttori a valutare metodi di produzione alternativi per restare nel mercato.
Infine, con la carne coltivata si limiterebbero le patologie associate al consumo di carne rossa, i casi di zoonosi e la contaminazione della carne da parte di agenti patogeni, che di norma vengono associati all’intensità dell’allevamento del bestiame.
La carne coltivata nell’Unione Europea
Oggi gli unici due Paesi ad aver autorizzato il consumo di carne coltivata sono Singapore, in cui è possibile mangiare nuggets di pollo al costo di 23 dollari americani, e Israele, che ha recentemente autorizzato la start-up Aleph Farms la produzione di carne bovina a partire da cellule staminali della mucca Black Angus californiana. Negli Stati Uniti dal 2020 sono in corso trattative che hanno portato ad una pre-autorizzazione.
In Europa esistono varie startup che si occupano di carne coltivata, e alcuni governi come i Paesi Bassi, il Regno Unito, la Germania e la Spagna, hanno destinato fondi pubblici nella ricerca.
Nell’Unione Europea, tuttavia, non è ancora possibile consumare alimenti a base di carne creata in vitro, poiché gli stessi si considerano alimenti “nuovi” ai sensi del Regolamento UE n. 2283/20153.
In particolare, sono “nuovi” tutti quei cibi non utilizzati in misura significativa per il consumo umano nell’UE prima del 15 maggio 1997, e che rientrano in una delle categorie indicate all’articolo 3.
Tra queste, il comma 2, lettera a) include al punto vi) gli alimenti provenienti da colture cellulari, e il punto vii) quelli costituiti mediante procedimenti non utilizzati prima del 15 maggio 1997 che ne modificano la struttura o la composizione.
Per circolare nel mercato unico, il nuovo prodotto dovrà quindi essere autorizzato dalla Commissione e inserito nell’elenco dei nuovi alimenti di cui al Regolamento UE n. 2017/24704.
Finora nell’Unione Europea sono stati autorizzati sei alimenti a base di insetti, mentre non è stata ancora presentata nessuna domanda di autorizzazione per alimenti a base di carne coltivata.
La Legge n. 172/2023
La legge italiana che vieta la carne coltivata risulta dunque confermativa del divieto già esistente a livello europeo.
Il Legislatore italiano ha motivato l’urgenza di adottare un atto normativo di questo tipo con la necessità di tutelare il patrimonio agroalimentare nazionale, oltre che la salute dei cittadini. Tuttavia, questa finalità rivela che il Legislatore guarda con disvalore alla carne coltivata, e ritiene che un prodotto simile porrebbe in pericolo il Made in Italy, inteso come valore dell’insieme delle produzioni alimentari tradizionali.
Incompatibilità con il principio di precauzione
A protezione della salute umana, l’articolo 2 vieta agli operatori del settore alimentare (OSA) di “impiegare nella preparazione di alimenti, bevande e mangimi, vendere, detenere per vendere, importare, produrre per esportare, somministrare o distribuire per il consumo alimentare ovvero promuovere ai suddetti fini alimenti o mangimi costituiti, isolati o prodotti a partire da colture cellulari o di tessuti derivanti da animali vertebrati”.
La norma richiama il principio di precauzione di cui all’articolo 75 del Regolamento CE numero 178/20026; i suoi precetti, tuttavia, sembrano debordare ampiamente i limiti posti da quel principio.
Il principio consente di adottare misure provvisorie anche interdittive alla circolazione di alimenti, qualora emerga la possibile insorgenza di effetti dannosi per la salute e sussista un’incertezza dal punto di vista scientifico sulla sicurezza dell’alimento. Tali misure, tuttavia, debbono essere proporzionate e realizzare un giusto equilibrio tra la tutela della salute e la compressione del mercato unico.
È evidente che una misura inibitoria imposta con una legge imperativa dello Stato non potrà mai considerarsi giustificata dal principio di precauzione, poiché non è provvisoria.
Il divieto, inoltre, riguarda un prodotto che ancora non esiste in quanto nessun nuovo alimento a base di carne coltivata è stato ancora autorizzato dalla Commissione. Il che rende impossibile ogni valutazione in merito alla sua sicurezza.
Conseguenze in caso di inserimento di un prodotto alimentare a base di carne coltivata nell’elenco dei Novel Food
- Nei confronti degli OSA degli altri Stati membri
La legge italiana realizza inoltre una restrizione quantitativa vietata ai sensi degli articoli 34 e 35 del TFUE.
Qualora un alimento a base di carne coltivata fosse autorizzato dalla Commissione, le stesse misure risulterebbero incompatibili anche con la normativa derivata, poiché l’inclusione nell’elenco dei cibi nuovi sancisce il diritto degli OSA di immettere quell’alimento nel mercato unico europeo.
I primi commentatori della legge italiana si chiedono se in questo caso l’Italia farà ricorso alle misure d’urgenza di cui agli articoli 537 e 548 del Regolamento n. 178/2002.
Le norme in questione richiedono, tuttavia, un grado di rischio anche maggiore di quello richiesto per le misure di cui all’articolo 7 dello stesso Regolamento, dovendo risultare non solamente possibile, ma piuttosto manifesto il rischio “grave” per la salute umana. Avendo già superato il vaglio relativo alla sua sicurezza già prima di essere autorizzato, il nuovo cibo, tuttavia, difficilmente potrà formare oggetto di misure interdittive d’urgenza, tanto più se il timore della insalubrità del prodotto si regge su valutazioni meramente ipotetiche.
- Nei confronti degli OSA italiani
Nel mercato interno, le norme che vietano la produzione e l’impiego di carne coltivata realizzano una “discriminazione alla rovescia” nei confronti degli OSA italiani, i quali, a differenza competitori europei, non potranno beneficiare delle norme comunitarie che garantiscono le libertà di circolazione.
Lo svantaggio è notevole, poiché l’articolo 5 del Disegno di Legge prevede che, salvo che il fatto costituisca reato, la violazione dell’articolo 2 comporta l’applicazione di una sanzione amministrativa pecuniaria da 10.000 a 60.000 euro, o del 10% del fatturato annuo, con un massimo di 150.000 euro; la confisca del prodotto dell’illecito; il divieto di accedere a contributi pubblici e la chiusura dello stabilimento produttivo per un periodo da uno a tre anni.
Si tratta di sanzioni molto pesanti, con evidente effetto deterrente.
I rimedi
Con l’entrata in vigore della legge sul divieto della carne coltivata l’Italia potrà essere assoggettata ad una procedura di infrazione9 che, però, potrà imporre allo Stato solo delle sanzioni pecuniarie.
Stante l’efficacia diretta degli articoli 3410e 3511TFUE e della normativa derivata, coloro che si assumano danneggiati dalla loro mancata applicazione potranno inoltre ricorrere dinanzi a un giudice nazionale, che disapplicherà le norme di diritto interno incompatibili con il diritto comunitario, anche nei giudizi aventi ad oggetto l’impugnazione delle sanzioni, eventualmente a loro irrogate.
Conclusioni
Concludendo, non è affatto certo che la legge italiana di nuovo conio permarrà nell’Ordinamento interno, anche a causa delle forti critiche mosse da stakeholders, forze politiche non governative, e associazioni ambientaliste e animaliste, che ritengono il provvedimento inutile o, peggio, dannoso.
Fino a che l’Unione europea non autorizzerà il primo alimento a base di carne coltivata, la stessa conserverà comunque una valenza più propagandistica che sostanziale.
Quel che è certo, è che l’atteggiamento di chiusura dimostrato dal legislatore italiano, da un lato, potrebbe portare gli imprenditori ad investire all’estero in un settore fortemente emergente e, dall’altro, priverebbe i consumatori italiani della disponibilità di un alimento che potrebbe in futuro rivestire una indubbia importanza nel settore agroalimentare. Senza contare che rinunciando alla produzione di carne coltivata, l’Italia potrebbe vedersi precluso un mercato nel quale sviluppare ulteriormente il proprio Made in Italy, frustrando la finalità stessa del Disegno di legge appena approvato.
Valentina Orsini Federici Bruno